Arianna, febbraio 1961 — a cura di Pier Maria Paoletti

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"Questa timidezza di cui ho parlato, questo stato di agitazione, questa costante prudenza non mi sono congeniali: sono nate in me la prima volta che ho messo piede in palcoscenico, e cresciute via via, col crescere delle mie responsabilità di fronte al pubblico..."

Il tenore Franco Corelli che ha raggiunto il vertice della notorietà interpretando il “Poliuto” con la Callas alla Scala racconta in esclusiva per le lettrici di Arianna il romanzo della sua vita. Sportivo ed esuberante studente d’ingegneria, era timidissimo con le donne. Incominciò la carriera nel ‘45 cantando per i soldati. Se lo contendono oggi tutti i teatri del mondo.

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Due diverse espressioni di Franco Corelli: a sinistra sul palcoscenico della Scala nelle vesti eroiche di Poliuto: a destra seduto al pianoforte nella sua abitazione milanese. Sono le immagini della diversa personalità di Corelli: austero e sicuro di sé sulla scena, tormentato nella vita privata.

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F.C.: Il pubblico che mi segue e mi conosce, abituato a considerarmi un personaggio lirico piuttosto spavaldo e sicuro de sé, sulla scena come nella vita, stenterà forse a credermi: ma - è la verità - io sono timido. E la timidezza porta con sé la paura: una paura terribile, prima del contatto col pubblico, che mi logora il sistema nervoso e mi fa affrontare la recita come una specie di battaglia. Quando, però, uscito dall’ombra delle quinte, le luci della ribalta mi investono, la mia tensione nervosa cede miracolosamente e mi penetra una serenità assoluta, direi quasi uno stato di grazia, che mi rende lucidissimo e consapevole, in ogni momento della mia interpretazione. Sono le uniche ore veramente felici della mia giornata, durante le quali non conosco più né preoccupazioni né dubbi né incertezze.

L’ultima “battaglia”, la più importante della mia carriera, è stata naturalmente l’inaugurazione della Scala col Poliuto, opera di cui ero protagonista, irta di tante difficoltà vocali e tecniche che pochissimi tenori l’hanno saputa affrontare onorevolmente, anche nel passato. Per questo Poliuto la mia costante tensione, adorabile compagna di tutta la mia carriera, è salita ad intensità mai raggiunte e direttamente proporzionato ad essa è stato poi lo slancio eroico sul palcoscenico che mi ha fatto vincere, mi si permetta di dirlo, in modo davvero lusinghiero. Quando poi, spentisi gli applausi del pubblico, mi sono ritrovato solo in camerino, ho avuto quasi per reazione un lungo, intenso momento di raccoglimento e mi sono accorto, forse per la prima volta da che canto, dei mutamenti radicali che la carriera lirica ha lentamente ma inesorabilmente impresso alla mia personalità alla mia psicologia.

Corelli insieme alla Callas nel « Poliuto » di Donizetti. Quando porta l’elmo piumato, Franco corelli raggiunge i 2 metri e venti d’altezza: un personaggio ben più affascinante dei cantanti d’opera di cinquant’anni fa.

Corelli insieme alla Callas nel « Poliuto » di Donizetti. Quando porta l’elmo piumato, Franco corelli raggiunge i 2 metri e venti d’altezza: un personaggio ben più affascinante dei cantanti d’opera di cinquant’anni fa.

Questa timidezza di cui ho parlato, questo stato di agitazione, questa costante prudenza non mi sono congeniali: sono nate in me la prima volta che ho messo piede in palcoscenico, e cresciute via via, col crescere delle mie responsabilità di fronte al pubblico: la preoccupazione di essere sempre all’altezza della situazione, voglio dire in perfetta efficienza fisica e spirituale per non tradire mai - almeno per mia leggerezza - la fiducia e la stima che pubblici sempre più vasti mi vanno manifestando.

Da ragazzo invece ero davvero l’eroe senza macchia e senza paura: alto, smilzo, scattante, ero una specie di capobanda del quartiere di Ancona in cui vivevo e non so bene se i giovanotti in blue-jeans di oggi ne riescano a combinare più di quante ne combinavamo noi coi capelli ondulati e impomatati, fissa la mente a un ideale virile impersonato da Bob Taylor, vale a dire un ideale piuttosto romantico e tutt’altro che “bruciato”.

C’erano due tipi di eroi cinematografici che mi piaceva imitare: da ragazzino, il guerriero romano di Cleopatra o del Segno della croce (da allora, probabilmente, mi è rimasta la mania per le corazze lucenti e gli elmi piumati che porto nella Norma o nel Poliuto); da adolescente Johnny Weissmuller, il Tarzan degli anni trenta, il cui ideale mi accompagnò a lungo, in una brillante carriera sportiva. Ero nato a pochi metri dal mare e il nuoto e il canottaggio, logicamente, erano i miei sport preferiti, insieme al rugby e alla pallacanestro. Così le vittorie atletiche mi conferivano un grande prestigio fra i componenti della banda e incendiavano i cuori delle ragazzine che assistevano numerosissime alle competizioni.

La timidezza, allora, e la cautela non sapevo davvero cosa fossero. E se adesso, la gola fasciata col fazzoletto di seta di tutti i tenori, sono terrorizzato all’idea di un raffreddore, allora non mi spaventava neppure la possibilità di rompermi la testa. Una volta, mi ricordo, mi sedetti al volante di un grosso camion di mio zio, carico di fieno, riuscii a metterlo in moto, mi lanciai a corsa pazza per una discesa e m’infilai dritto in un negozio fracassando ogni cosa. Un’altra volta presi di nascosto il fucile da caccia di mio padre e me ne andai a sparare ai piccioni e ai passeri addirittura ai giardini pubblici, sotto gli occhi dei vigili urbani. Mi andò male, però, perché m’impallinai tutto, restando ferito alla faccia piuttosto seriamente: per questo adesso voglio che le foto di profilo me le facciano tutte dalla parte destra.

La mia giovinezza, dunque, trascorse sotto il segno della spavalderia. Meno che con le ragazze. Voglio dire con le ragazze che mi piacevano. Quelle che mi corteggiavano per i miei successi sportivi o per il mio prestigio di capobanda non mi interessavano. Quelle che mi interessavano, chissà perché, avevano ideali tranquilli e borghesi e mi detestavano. Ce n’era una coi capelli rossi, a scuola, che (quando si dice il destino!) si chiamava Norma. Le mie vittorie agli “agonali” dello sport e perfino i pubblici elogi del segretario della “Gil” la lasciavano del tutto indifferente: cominciò a interessarsi a me solo dal giorno in cui, arrossendo e balbettando, le chiesi di farmi copiare il compito di latino. Avevo risvegliato il suo istinto materno, di protezione e furono proprio le mie sistematiche insufficienze in latino, in seguito, a farla cadere, innamorata cotta, fra le mie braccia.

Del resto anche Loretta, mia moglie, non l’ho conquistata coi coturni e l’elmo piumato di Pollione - quando i giornali, mi vergogno a dirlo, mi definirono il primo “fusto” nella storia del teatro lirico - ma con un atto di gentilezza e di timidezza. Nel ‘53 ['52], poco più che debuttante, facevo l’Adriana Lecouvreur all’Opera di Roma: durante una prova vidi una giovane artista, piuttosto miope, scendere incerta, nella penombra, dalla scala dei camerini: le diedi la mano e l’accompagnai fino alle quinte. Più tardi Loretta dedicò - anzi sacrificò - completamente a me la sua vita ed ora la ripago, devo confessarlo, col più nero egoismo. Un egoismo che è un altro aspetto, poi, di quella forma di preoccupazione e di insoddisfazione che mi prende immancabilmente quando devo affrontare una prova impegnative e che mi fa diventare, per reazione, prepotente, nevrastenico e dispotico. Così mia moglie poveretta, riesce a stare un poco tranquilla soltanto nei giorni di riposo, quando ce ne andiamo in campagna e non la perseguitano le mie paventate raucedini, le richieste pressanti di pillole e di borse dell’acqua calda.

Nella sua casa di Milano Franco Corelli trascorre molte ore studiando al piano o ascoltando la sua voce nel magnetofono: mezzo infallibile per scoprire i più piccoli difetti d’interpretazione.

Nella sua casa di Milano Franco Corelli trascorre molte ore studiando al piano o ascoltando la sua voce nel magnetofono: mezzo infallibile per scoprire i più piccoli difetti d’interpretazione.

Ma per tornare agli anni felici di Ancona, quando nessun senso di responsabilità verso un “mio” pubblico aveva ancora trasformato il mio carattere, dirò che il castigo peggiore, allora, per le mie imprese di capobanda, era una serata all’opera. Non poter uscire, dopocena, per organizzare gare di nuoto notturne o spedizioni punitive nei quartieri delle bande avversarie, mettermi il vestito buono e andare come un prigioniero fra babbo e mamma al Teatro delle Muse era una pena insopportabile. Ricorderò sempre di aver dormito meravigliosamente, in palco, una sera che Pertile cantava il Ballo in maschera: mi svegliai soltanto quando dal loggione fecero scendere in palcoscenico una gran barca infiorata in onore del celebre cantante al suo tramonto.

Tuttavia, devo proprio agli amici di scorribande se mi ritrovai, più tardi, una voce fuori del comune: ad Ancona, come del resto in tutte le Marche, c’era la mania del bel canto, fiorivano, come oggi, le società corali e frequenti in compagnia erano le accese discussioni sull’ultima interpretazione di Gigli o Lauri-Volpi ascoltata per radio. Discussioni da competenti, intendiamoci, fitte di termini tecnici come “volume”, “emissione”, “diaframma”, ”acuto in testa”, “respirazione fonda” e via dicendo. Spinto dal mio solito orgoglio, dal desiderio di primeggiare sempre e in qualsiasi occasione, cominciai a cantare anch’io, in gara con gli amici, o a fare serenate alle ragazze, a base di 'Vivere', 'Mamma' e 'Torna piccina mia'. Cantavo da cane, sguaiato, sgraziato, e l’unica cosa che mi piaceva era di fare acuti chilometrici, monotoni e fastidiosi. Così mi trovai avviato a quello che doveva essere il mio destino quasi senza accorgermene.

Nel ‘45, quando entrarono gli americani, con tutto il loro bagaglio di luoghi comuni sull’Italia canora, ci fu l’abitudine di organizzare trattenimenti vari nei diversi quartieri della città: una sera, in cui il programma organizzato nel nostro quartiere era un po’ misero, mandarono un ragazzino a chiamarmi: “Francooo…”, mi gridò sotto le finestre, “vieni a cantare 'Ch’ella mi creda'!”. Era l’unica romanza che sapevo discretamente. Andai, cantai - meglio, urlai - e trionfai. Fu il mio primo concerto in pubblico e gli applausi mi andarono alla testa. Così mi venne il pallino del canto e la situazione familiare si rovesciò: questa volta erano i miei genitori, scottati da una poco felice carriera artistica intrapresa da mio fratello, che si opponevano in tutti i modi al mio desiderio di studiare canto - soprattutto con quella voce! - e insistevano perché proseguissi all’Università gli studi da me odiatissimi di ingegneria. Mio padre era nato, si può dire, nei cantieri navali di Ancona, adesso ne era dirigente e voleva che anch’io vi entrassi come ingegnere.

Fu per caso, nel 1951 [1949], che leggendo un bando di concorso del “Maggio Fiorentino” decisi con gli amici di fare una gita a Firenze: per correre dietro a una ragazza rischiai di perdere l’audizione, arrivai trafelato senza lo spartito e quando gli esaminatori mi chiesero che cosa volevo cantare, risposi con l’incoscienza di uno che non ha niente da perdere: 'Se quel guerrier io fossi'.

Cantai malissimo, ma, come succede sempre nei film musicali, la mia voce impressionò la giuria e soprattutto Pizzetti che, con la sua autorità, convinse la direzione ad assegnarmi una borsa di studio. Così stabilii fermamente di diventare un tenore. Qualche mese dopo però morì mia madre, che amavo di una tenerezza profonda - ancora oggi, dopo dieci anni ne porto il lutto e lo porterò fino a quando non avrò sciolto il voto di dedicarle una Messa da Requiem - e decisi di smettere di studiare. Fu mia sorella, che credeva in me, a mandare un giorno di nascosto una domanda d’ammissione alla scuola di perfezionamento di Spoleto e quando seppe che era stata accettata mi mise quasi di forza sul treno, convincendomi a sostenere l’audizione. Cantai la romanza del fiore della Carmen e mi andò peggio che a Firenze: fui bocciato. Basta: ormai l’idea di diventare un tenore si era trasformata in puntiglio, mi ripresentai a Spoleto e di delusione in delusione riuscii finalmente a spuntarla.