EPOCA, 26 luglio 1970 — di Giuliano Ranieri, foto di Giorgio Lotti

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« ...vede, io sono stato fortunato, lo dico sempre. Anche se non condivido un giudizio che un critico ha dato di me. Sa che cosa diceva: "Corelli ha avuto tutto, ha avuto troppo. La voce, la bellezza, il successo”. Dimenticava lo studio, i dubbi, i terrori; dimenticava che io non appartengo più a me stesso, ma al pubblico. Il successo si paga sempre, sempre ».

II tenore, all’apparenza così sicuro di sé, teme soprattutto i raffreddori, le lettere anonime e l’angoscia che precede lo spettacolo.

Verona, luglio

Gli americani hanno decretato che è il tenore più bello e più bravo del mondo, lui ha ringraziato per la gentilezza e, da professionista serio, si è impegnato a difendere se stesso, conservarsi giovane, incurante del tempo che passa (con molta lentezza per i tenori), preoccupato dell’aria che respira, perché il minimo scarto di temperatura potrebbe offendere la sua gola preziosa, potrebbe disturbare i suoi bronchi o semplicemente metterlo in uno stato di ansia che altererebbe il suo sistema nervoso. L’ideale, per lui, sarebbe di immergersi in una atmosfera disinfettata, in un’eterna primavera senza venti e senza pioggia: invece bisogna sopportare i lunghi inverni, le nebbie e lo smog.

Franco Corelli fotografato davanti all'immensa platea dell’Arena di Verona. Ad applaudire il tenore, la prima sera, erano presenti ventimila persone. Franco Corelli ha esordito proprio con la Carmen a Spoleto nel 1952 [1951]. Quattro anni dopo interpretò la stessa opera all’Arena di Verona.

Franco Corelli fotografato davanti all'immensa platea dell’Arena di Verona. Ad applaudire il tenore, la prima sera, erano presenti ventimila persone. Franco Corelli ha esordito proprio con la Carmen a Spoleto nel 1952 [1951]. Quattro anni dopo interpretò la stessa opera all’Arena di Verona.

Una lotta continua per preservare la voce potente, fresca come quella di un debuttante, controllata con sapienza e con amore in ogni istante della giornata. Lui canta mentalmente anche quando tace, prova i « passaggi », studia le « smorzature » e le intonazioni. Gli altri, quelli che gli stanno intorno, possono parlare quanto vogliono. Lo credono interessato al discorso, invece è assorto e pensa alla sua gola e il naso-barometro fiuta l’aria.

Franco Corelli, il big dei tenori, il cantante che può ancora assicurare con il suo nome il « tutto esaurito » in un periodo di grave crisi per il melodramma, è un uomo solitario e timido che ha pochi momenti di vera felicità: quando riesce ad abbandonare la sua « corte » e a rimanere solo con la moglie, e quando ha superato la tensione dell’entrata in scena. Lì, fra il tuonare dell’orchestra e lo snodarsi dell’azione, il cuore riprende a battere con un ritmo perfetto: esce la prima nota, è tersa, pulita. Si può andare avanti sicuri di essere all’altezza del proprio nome e dell’attesa del pubblico. Il tormento di ogni vigilia è finito. L’angoscia greve delle due ore trascorse in camerino per perfezionare il trucco, per rendere ancora più attraente il volto che piace tanto alle signore americane, è dimenticata, si infrange sul muro dei primi applausi.

E stato difficile avvicinare Franco Corelli, tornato a Verona dopo otto anni di assenza per interpretare la Carmen all’Arena. Una giornata di rinvii e poi, grazie al temporale che ha fatto sospendere la prova generale dell’opera, una serata e una parte della notte dedicate a una strana intervista, in cui dovevano essere bandite le « solite domande », ma si doveva « chiacchierare fra amici » nella hall dell’albergo. Franco Corelli era rimasto rinchiuso, in completo silenzio, nel camerino in legno ricavato tra le mura dell’Arena. Dicevano che era « verde » perché stava piovendo e sentiva un « bruciorino » nel naso. Era teso. Doveva forse far riudire la sua voce a gente che l’aveva dimenticato. C'erano molti critici, molti colleghi tanto simpatici, ma pronti a « pescare » la minima incertezza vocale. Bisognava rimanere vigili. Loretta, la piccola e fragile moglie, sosteneva l’assalto degli ammiratori tenendo a guinzaglio l’onnipresente barboncino Romeo.

Poi, la voce dell’altoparlante: « A causa del perdurare del maltempo, la prova generale è rimandata... ». Corelli poteva ormai uscire dal suo bunker. L’abito estivo grigio, la camicia di seta blu, non potevano ripararlo dall’umidità. Un’ammiratrice era pronta a sacrificare il suo scialle amaranto e il tenore si avviava al ristorante, proteggendo il torace ampio, nel tragitto di pochi metri verso il tassì.

Davanti a un risotto alla parmigiana e a mezzo bicchiere di vino, il tenore torna ad essere l'ex-impiegato Franco Corelli, un signore riservato e semplice. Almeno in apparenza. Sappiamo che dentro di sé pensa già alla nuova impresa che l'attende; e il maltempo lo preoccupa molto. Ogni tanto si volta. Chiede: « Sente anche lei uno spiffero d’aria? ». Veramente nessuno dei presenti l’avverte. Ma ha ragione lui. C’è una finestra aperta e tre o quattro camerieri si precipitano a chiuderla: una gara a chi arriva prima. Ci mancherebbe altro che il commendatore si raffreddasse, sarebbe un disastro per il ristorante e per l’Arena di Verona. Corelli sembra volersi scusare per il fastidio che dà. Sembra sopportare anche lui, da professionista e non da missionario, questa croce e delizia della sua carriera.

Il suo volto è pallido. Il volto di chi deve evitare il sole, di chi deve passare le giornate chiuso in un albergo o, nel migliore dei casi e raramente, nella sua casa milanese, fra giradischi, nastri magnetici, spartiti d’opera. Ogni nota che esce dalla sua gola ha anche il suono del metallo pregiato, un metallo che significa ricchezza, eppure nello sguardo smarrito di questo cantante, « divo » suo malgrado, si avverte il rimpianto per una giovinezza normale che è stata interrotta dal successo improvviso, per la campagna marchigiana, la sua terra, in cui si poteva scorrazzare con gli amici cantando senza paure, sotto il sole, e sotto le stelle. Ma lui non si concede particolari rimpianti. « Lei », domanda, « non ha forse rimpianti? Tutti ne possiamo avere. E poi, vede, io sono stato fortunato, lo dico sempre. Anche se non condivido un giudizio che un critico ha dato di me. Sa che cosa diceva: "Corelli ha avuto tutto, ha avuto troppo. La voce, la bellezza, il successo”. Dimenticava lo studio, i dubbi, i terrori; dimenticava che io non appartengo più a me stesso, ma al pubblico. Il successo si paga sempre, sempre ».

Adesso sta firmando autografi. « All’amico... in ricordo di Carmen ». È l'ora di rientrare in albergo. Lo scialle non c’è più. Ma c’è un’altra signorina che offre l’impermeabile estivo di nylon. Corelli lo indossa sopra la camicia, poi mette alcuni giornali sul petto, completa lo strano abbigliamento con la giacca ed esce a sfidare la pioggia. Lo attende l’auto di certi ammiratori milanesi. È l’una di notte e riprende la « chiacchierata » in albergo. L’esordio non è da tenore. « La verità, forse, è che io non sono nato per cantare. Mi hanno preso di peso e mi hanno messo su un palcoscenico. La voce c’era, e come. Ma grezza, sa, bruttina, insicura, persino caprina. Ora, certo, è un’altra cosa. Ma non parliamo di vocazione, per carità. Parliamo di professione, è più giusto. » E sprofondato in una poltrona. Accavallate le lunghe gambe, una mano occupata a controllare i capelli ricciuti che scendono sul collo. « Lei capisce », continua, « un giovane alto un metro e ottantasette, belloccio, dicono, con un vocione potente doveva fare effetto. Era nato il tenore moderno, quello che può imporsi anche per il fisico. Dovevo fare Aida a Spoleto nel '52 ['51], ma non convincevo ancora negli acuti, non avevo tutte le note, dicevano. Allora decisero di mettere in scena la Carmen. Fu un grande successo, all’ultimo atto molti piangevano, piangevo anch’io ».

Quella Carmen fu davvero una rivelazione, anche se il Corelli di allora era pieno di difetti. E così il tenore che non aveva studiato canto, che fino a pochi mesi prima aveva fatto l'impiegato ad Ancona si trovò al centro dell’attenzione del mondo della lirica. Niente gavetta, niente teatri di provincia. Subito l’Opera di Roma, quasi subito la Scala. Due anni di ripensamenti, di affrettati studi e poi, con il miracolo d’una voce che maturava, si espandeva, trovava le note più acute, la responsabilità di riesumazioni come quelle del Poliuto, degli Ugonotti, del Pirata, della Vestale, il clamoroso esordio nella Turandot (chi aveva mai sentito un Calaf simile, dopo Giacomo Lauri Volpi?), nel Trovatore, nella Fanciulla del West, nell’Andrea Chénier, nella Tosca, nella Norma, nella Fedora. Corelli e la Callas, Corelli e la Tebaldi. Si riaccendeva l’antico amore per il melodramma attorno a questi divi ritrovati. Corelli era il più giovane, il più inesperto. Era il tenore arrivato subito che doveva considerarsi uno « studente di canto ». Sempre i nervi tesi, sempre il dubbio del « si sa come incomincia l’opera, ma non si sa come finisce ». Tutto è giustificato dal carattere. La timidezza provoca esplosioni improvvise e allora si arriva al grande litigio con il basso famoso (giustacuore e spada in pugno, alzata minacciosa contro il rivale durante una prova), all’alterco nell’intervallo di una recita con uno spettatore che aveva zittito gli applausi al San Carlo di Napoli, agli scontri con qualche soprano bizzosa o poco comprensiva.

« Vede, io sono paziente », dice Corelli con voce bassa, ma chiara come quella d’un ragazzino, « sono sempre disposto a offrire l’altra guancia. Sapesse quante cose so sopportare. A un certo momento mi sento trasformato, mi salta il sangue alla testa. Poi mi pento. Vorrei scomparire. È la tensione accumulata in me che ogni tanto si sprigiona. Sarebbe così bello se tutti i cantanti si occupassero dei fatti loro. È impossibile. Davvero impossibile ».

Franco Corelli in un momento della sua interpretazione della Carmen di Bizet.

Franco Corelli in un momento della sua interpretazione della Carmen di Bizet.

Appena arrivato a Verona ha trovato delle lettere anonime. Squallide frasi che lo paragonano in peggio a un altro tenore (peraltro bravissimo), che gli preannunciano bordate di fischi, che gli rinfacciano la fortuna avuta. Le lettere anonime lo perseguitano. Anche al Metropolitan di New York, dove è applaudito da otto anni e dove soltanto un Gigli o Lauri Volpi hanno ottenuto consensi paragonabili ai suoi, le minacce non mancano. La moglie cerca, quando può, di evitargli questi turbamenti, perché i nervi sono fragili e andare in scena sapendo che nel buio della sala c’è qualche spettatore ostile, non permette a Corelli di cantare tranquillo.

« L’invidia è un brutto male », dice il tenore, « ma a New York ho trovato tante altre cose importanti. Ho potuto scegliere un repertorio meno banale. Basterebbe ricordare il Romeo e Giulietta, riportato alle scene dopo oltre trent’anni e che è stato uno dei grandi trionfi delle ultime stagioni. Mi accusano di snobbare i teatri italiani, di aver paura della Scala, di pretendere cachet astronomici. Sono tornato recentemente in Italia a Firenze e a Parma. Sarei tornato con gioia anche alla Scala: quei quattro o cinque loggionisti che preferiscono un mio collega non mi preoccupano davvero. Non è stato possibile. Ho offerto tre opere, inutilmente; e poi le date non combaciavano mai. Sa, io ho degli impegni fino al 1973, e devo rispettarli, in tutta l’America e in vari Paesi europei. Le mie paghe? Sono proporzionate ai valori del mercato, evidentemente. Ma credo di saper parlare anche con il cuore. Per lo sferisterio di Macerata, dove ho cantato alcune settimane fa Turandot, non ho badato ai compensi. È stata un’esperienza indimenticabile, un teatro all’aperto stupendo, un pubblico paragonabile a quello dell’Arena anche se meno numeroso. Sono venuti ad ascoltarmi persino dall’Austria; adesso arrivano anche a Verona. Qualcuno ha interesse a far credere che Franco Corelli ha paura, che Franco Corelli è venale. Sopporto. Conosco una sola paura, quella che mi prende alla vigilia di ogni recita. Ma è paura o senso di responsabilità? In palcoscenico non ho tremato mai. Un Manrico, un Don Josè, un Radames, non possono tremare. »

Adesso Corelli lascia la poltrona. Fa vedere come Zeffirelli gli ha insegnato a essere un vero Turiddu nell'ultima Cavalleria Rusticana. Imita l’incedere di un bullo paesano. Passettini stretti, mani in tasca... Si diverte come un ragazzo. La timidezza, le prevenzioni di un’intervista-trabocchetto, sono scomparse. È rimasto giovane, dentro, come se il tempo si fosse fermato quella sera nel teatro di Spoleto, quando il destino decise di trasformarlo in un prigioniero di lusso, lontano dall’aria, dal vento, dalla pioggia, dal sole. Stiamo ai patti: non chiediamo al bel tenore quanti anni ha, non facciamo l’elenco dei suoi successi, non ricordiamo il milione e passa di dischi venduti, le opere complete incise, le follie delle ammiratrici americane (dai 12 ai 90 anni), follie che solo le americane sanno fare. Ci vorrebbe un’altra nottata. L'assedio delle donne piace a Corelli. « Sa una cosa? », mi dice abbassando ancora di più il tono della voce che non va stancata, « hanno organizzato per Verona tre aerei speciali. Mi preparo a un assalto di signore e signorine di tutte le età. »

Chissà quante volte il tenore ha pensato che la sua voce e il suo fisico non sono eterni. Eppure non ne ha parlato mai, con nessuno, nemmeno con la moglie, che per lui è tutto. È « ufficialmente » incurante del trascorrere degli anni. Ma un cronista accorto deve evitare l'argomento. E un argomento « inutile ». Meglio parlare del futuro, dei moltissimi anni da dedicare ancora al teatro, dei prossimi debutti. Il primo di essi, nella nuova stagione al Metropolitan, sarà clamoroso: il tenore eroico diventerà Werther, canterà cioè un’opera che è cavallo di battaglia di tenori leggeri o appena lirici. « Se vuole farmi un piacere », dice, « scriva che io non sono né un tenore drammatico né un tenore lirico. Sono una voce. Per questo posso spaziare, adesso, dopo tanti sforzi, dopo anni di applicazione, di prove, di allenamento continuo, in un repertorio vastissimo. » Ricorda, nelle sue affermazioni, un illustre artista del passato, suo prezioso « consigliere », quel Lauri Volpi che riuscì a passare dalla Manon di Massenet al Guglielmo Tell, opera sovracuta per la corda tenorile. Ma forse Corelli pensa a Caruso, anche se non osa evocare quel nome. Canterà per la prima volta anche la Lucia di Lammermoor e sta studiando accanitamente Rigoletto.

« Lei mi domanda se sono finalmente pronto per Otello. Rimandiamo il discorso. Sarà un altro capitolo della mia completa maturità. » La faccenda del Moro di Venezia lo ha un po’ seccato. Tutti gli chiedono quando affronterà l’opera verdiana. Stiamo uscendo dai patti: niente quesiti logori. Sono le quattro del mattino. « Caro, sei stanco », non è una domanda, ma una constatazione dolcemente imperiosa, della signora Loretta. Ormai Franco Corelli deve tornare al tormentato personaggio di Don Josè, il dragone irretito e tradito da Carmen. In questi giorni non penserà ad altro, e ogni sera sarà un Don Josè nuovo, imprevedibile, davanti ai ventimila che hanno già esaurito l’Arena per tutte le sue recite. « No, cara, non sono stanco, ma sento un bruciorino al naso. Devo riguardarmi. Speriamo che smetta di piovere. »

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